Il buon pastore

Gesù, il buon pastore. Mausoleo di Galla Placidia-Ravenna


Il buon pastore

di Giuliano Lenni
Giuseppe era tornato da poco in Italia dopo aver trascorso quasi cinquant’anni della propria vita al servizio dei più bisognosi, nella magnifiche e tormentate terre d’Africa. Aveva avuto la passione di aiutare il prossimo fin dall’infanzia quando, meravigliando parenti e amici, si dava un gran daffare per dare una mano nelle faccende domestiche alla madre e nei lavori di campagna al padre. Era nato in una bellissima giornata di aprile del 1945, proprio al termine della seconda guerra mondiale, da una famiglia che possedeva una cascina alle pendici della grande montagna. Si era dimostrato da subito un bambino assennato, sensibile ed educato e, a scuola, studiava con piacere e profitto, seppur al lume di candela, e la maestra lo adorava. Era davvero un bambino speciale. Terminate le elementari avrebbe dovuto intraprendere il lavoro del padre, un uomo atto ai lavori di campagna che gli permettevano di mantenere agiatamente la propria famiglia. Ma lui, Giuseppe, aveva un’ambizione più grande, sembrava che volesse alleviare le sofferenze del mondo. Si confidò con il parroco del piccolo paese arroccato a mezzacosta che, dapprima con stupore e poi con meraviglia, lo introdusse nel mondo del seminario, certo che il giovane sarebbe divenuto un buon pastore di anime. La famiglia non osteggiò la volontà del ragazzo, da sempre ben educato ma fortemente deciso e irremovibile sulle proprie decisioni. Passarono dieci lunghi anni di studio e, alla fine, don Giuseppe aveva coronato il suo sogno. Partì come missionario in Africa nel 1970, comprendendo che il suo servizio sacerdotale avrebbe avuto maggior impatto in quelle povere terre che in Italia dove già si respirava l’aria di opulenza, conseguenza del boom economico. Tra mille peripezie e combattendo ogni giorno a fianco di quelle povere e deboli persone, si era abituato a guardare dritta in faccia la morte, che certe volte gli sembrava un dono di Dio, visto che alleviava dolore e sofferenza, trasformando quei volti dolenti in facce distese e quasi sorridenti. Ormai alla soglia della vecchiaia il pastore decise che era arrivato il momento di tornare al suo paese di origine anche se, ormai, nessun familiare era più in vita. Voleva trascorrere proprio lì, dove tutto era cominciato, gli ultimi anni della propria vita. Il nuovo anno, il 2020, era iniziato sotto i migliori auspici e don Giuseppe trascorreva le sue giornate in solitudine, leggendo libri e raccogliendo pensieri inerenti la sua vita trascorsa ad aiutare gli altri, senza televisore o computer, strumenti che non amava e ai quali non era abituato. Un giorno di marzo scese al paese per fare una sosta al solito bar, per sorseggiare un buon caffè d’orzo e fare due chiacchiere con il proprietario. “Ha sentito don Giuseppe che disastro questo Corona virus?”, disse il barista. Il prete sobbalzò, non sapeva nulla, cadde dalle nuvole. Allora il barista gli porse il giornale dove compariva un articolo di un giornalista locale: “Una bellissima ammalata tricolore sta combattendo, oggi come ieri, contro le avversità di un evento che ancora non è stato ben compreso, che diverrà epocale grazie alla storia che ce lo racconterà. Il 2020, un normale anno bisestile, è cominciato nel modo che nessuno si sarebbe aspettato. Un terribile virus, denominato Covid-19 resta, per molti aspetti, una malattia misteriosa e il dovere di ogni cittadino è quello di rispettare le precauzioni e le regole basilari di pulizia personale per rallentare la diffusione del contagio. La coscienza e l’educazione ci impone di non farsi prendere dalla paura e di tenere lo sguardo dritto verso quello che accadrà, senza patemi. Le scuole di ogni ordine e grado sono state chiuse al fine di evitare il contagio di massa per evitare il collasso del nostro sistema sanitario nazionale. Le restrizioni, necessariamente imposte dal governo, tendono a limitare la libertà di ognuno, anche se non dobbiamo permettere alla paura di cambiare le nostre abitudini, cercando un difficile equilibrio tra la necessità di tutelare la salute ed evitare il rischio di una pandemia e condurre una vita il più possibile normale. Il rallentamento delle attività ha fatto rilevare danni economici già notevoli. I primi settori andati in crisi sono quelli legati al settore turistico, dei trasporti, della ristorazione e di tutte le attività collaterali legate a tale settori, dal commercio all'organizzazione di eventi. Le associazioni di categoria, i sindacati dei lavoratori e gli imprenditori chiedono a gran voce interventi a sostegno delle attività economiche colpite da questa crisi inaspettata che si aggiunge ad una già difficoltosa congettura economica negativa internazionale. Nei periodi di grande emergenza, come quello attuale, la coesione tra tessuto sociale e istituzioni si deve rafforzare, al fine di dare spinte economiche e sociali importanti prima di difficile raggiungimento e oggi velocemente adottabili. Nondimeno, da questa esperienza, dobbiamo trarre insegnamento e regalarci grandi opportunità. Ad esempio lo smart work può far abituare i lavoratori e le aziende a mirare ad un compromesso lavoro e famiglia. La scuola, obbligata a sperimentare la didattica online, può integrare l’attività formativa in aula con strumenti informatici facilmente utilizzabili attraverso la rete, coniugando scuola classica con studio virtuale. La vita ci regala giornate fantastiche e periodi di incertezza e dobbiamo essere noi stessi, con la nostra esperienza e le nostre interconnessioni, a superare le difficoltà per tenerci a galla e trarre ottimismo quando tutto sembra perduto. Ma, appena la bufera passa, il sole torna a splendere e con lui la nostra voglia di vivere e andare avanti facendo del nostro meglio. Teniamo la barra dritta verso il giorno dopo, che prima o poi arriverà, nel quale torneremo alla nostra libertà recuperata e avremo nuova forza per affrontare il futuro”. Letto d’un fiato l’articolo, il buon prede quasi cadde sulla sedia del piccolo bar. D’improvviso gli tornarono in mente le pestilenze che aveva dovuto affrontare nella sua lunga carriera, da missionario, ed un brivido gli percorse la schiena partendo dalla testa. Tutto si sarebbe aspettato, ma non il fatto di dover rivivere le angosce dei tormentati giorni africani. Intanto il bar si era affollato di un piccolo gruppo di amici che parlottavano fra se degli eventi che stavano sconvolgendo la loro zona e neppure si accorsero del vecchio prete che, pensieroso, finiva di sorseggiare il suo caffè d’orzo. Tornò pian piano verso la sua cascina e trascorse il resto della giornata ripercorrendo la sua vita con gli occhi socchiusi e lucidi di pianto. Tre giorni dopo, appena consumata la sua solita frugale colazione, don Giuseppe si sentì le gambe pesanti e un leggero mal di gola lo tormentava. Misurò la temperatura, trentasette gradi e sette. Il fiato si fece corto e subito chiamò il proprio medico condotto che, per fortuna, era vicino al luogo in cui viveva il vecchio parroco e giunse appena in tempo per chiamare l’ambulanza. Don Giuseppe si ritrovò, d’improvviso, in una grande camerata d’ospedale disteso supino nel letto e con i sanitari, tutti ben protetti da camice, mascherina e guanti che eseguivano su di lui le operazioni di routine per fermare quella maledetta infezione. Il prete aveva ripreso a respirare bene e avrebbe voluto elogiare quei giovani medici e infermieri che, a rischio della propria vita, lo stavano aiutando a recuperare la salute ma, non potendo parlare, cercava i loro occhi che comparivano di tanto in tanto dagli occhiali protettivi così che la sua sensibilità lo fece sprofondare in una stato d’improvvisa depressione. Percepire tutte quelle persone di fianco a lui, sofferenti e disperate, gli toglieva la voglia di vivere, capì che era esausto. La situazione, dentro di lui, precipitò quando sentì il medico del reparto che, rivolgersi a due suoi collaboratori con un gesto di resa, affermò che in corsia non avevano più respiratori e che un giovane stava soffrendo disumanamente in attesa della morte. Don Giuseppe sbarrò gli occhi e poi li socchiuse, la sua mente si affollò di visioni lontane, persone disperate che erano morte di fronte a lui, quasi sorridendo nella consapevolezza del termine del dolore fisico e della tanto aspirata pace. Con un gesto chiamò il medico e con un filo di voce gli sussurrò qualcosa. Il respiratore passò da don Giuseppe a Davide, un giovane operaio di 27 anni con moglie e figlioletta di 3 anni che lo aspettavano a casa. Il respiro di don Giuseppe si fece sempre più flebile mentre qualcuno lo osservava da lontano, piangendo. Lui incrociò quello sguardo, gli ricordava se stesso, si lasciò andare abbozzando un ultimo sorriso.
Concorso letterario Il tempo sospeso Decameron 2020-Temperino rosso