Dentro gli occhi


Dentro gli occhi
di Giuliano Lenni

“Quando conoscerò la tua anima, dipingerò i tuoi occhi.” Questa frase del maestro Modigliani rappresenta il sunto perfetto della definizione occhi, i quali sono essenziali per la nostra vita, rappresentano l’intelletto umano e il progresso della civiltà. Vedere equivale a sapere, a capire, a decidere. Gli occhi sono luce, sono anima, sono vita, sono unici e, per questo, da sempre al centro della cultura umana. Il nostro sguardo è in grado di riferire il nostro stato d’animo ed è capace di percepire sentimenti ed emozioni senza la necessità della parola. Una delle prime immagini dipinte dall’uomo sono stati proprio gli occhi, idealizzati a tal punto da essere fonte di ispirazione per pittori, poeti e scrittori. Hanno dato origine a molti modi di dire di uso quotidiano e aforismi tramandati nei secoli. Durante il secolo breve, grazie alla fotografia e alla cinepresa, abbiamo ottenuto un modo di percepire gli occhi in maniera più consona rispetto agli sguardi disegnati dai pittori. Una delle sensazioni più interessanti riguardano gli sguardi che i fotografi hanno immortalato e resi famosi per l’intensità o colore, ma soprattutto per ciò che tali sguardi trasmettono a chi li osserva senza distrazioni. Gli sguardi di meraviglia dei bambini, lo stupore di un gesto gentile, il socchiudere gli occhi nel momento preciso di un bacio sulle labbra. Ma ciò che colpisce di più è lo sguardo di terrore e smarrimento dei deportati nei campi di concentramento di tutto il mondo, quelli che abbiamo impressi nella nostra memoria. Il senso di stordimento, di rassegnazione, l’incapacità per quegli occhi di capire il motivo di quello che stava succedendo loro. L’impressione più grande è provocata dagli sguardi innocenti e sorpresi dei bambini, la sensazione che se chiudi gli occhi muori, che se li chiudi rischi di dimenticare. Quegli occhi che oggi rivediamo nelle guerre sparse per il mondo, vicine a noi ma non troppo da farci preoccupare. Occhi che hanno il gravoso compito di farci riflettere e ci impongono il dovere di ricordare ciò che l’essere umano può concepire contro i suoi simili, in ogni epoca. Oggi e per sempre, quegli sguardi, ci devono insegnare a stare ad occhi aperti per vedere e non dimenticare. Se tieni gli occhi bene aperti non muori.

Tutti i giorni della mia vita

 




Tutti i giorni della mia vita

A Milena Barbetti, mia mamma
di Giuliano Lenni

Ho sempre avuto una certa attitudine alla scrittura e so che amavi leggere quello che componevo. Ma in questo momento il normale fluire delle parole è divenuto incerto, incatenato da una commozione mai provata. Quello che non ti ho mai detto, per riservatezza o per orgoglio, riguarda la mia personale gratitudine e privilegio di averti conosciuta, simbolo di donna forte e immutabile di un periodo storico irripetibile che mi ha donato, come apice della mia gioventù, gli anni ottanta, una stagione straordinaria che ho avuto modo di apprezzare e vivere grazie alle persone della tua generazione, di cui i nostri figli non avranno il vantaggio di beneficiare. Ho in mente quei giorni che abbiamo vissuto insieme, che il tempo uccide per regalarci i secoli, in questo periodo di esilio terreno che siamo costretti a vivere in attesa dell’eternità. Ne potrei ricordare a decine, a centinaia; dalla ormai desueta colazione pasquale alla prima volta che mi hai fatto assaggiare la neve fresca con zucchero e limone. Oppure i luminosi giorni delle lunghe vacanze al mare, i pranzi della domenica, gli amorevoli rimproveri, gli insegnamenti o quell’abbraccio consolatorio ad alleviare piccole o grandi ferite. Mentre scrivo questo ricordo di te e per te mi sorprendo ad asciugarmi qualche lacrima, le stesse che hai versato per me quando, con amore e forza straordinaria, mi hai ricostruito in piccoli pezzi nel periodo più difficile della mia vita. Mi hai regalato lo stupore e lo splendore del tuo sorriso aperto e puro, capace di infondere speranza, che bramo di rivedere nel nostro personale aprile, quando tutto questo non avrà più senso e rimarremo insieme per l’eternità. In questo momento di perdita non sono capace di ricordare tutti i singoli episodi che ci hanno legato, d’altronde siamo costretti a ricordare solo ciò che la mente fissa nella memoria e come poi ce lo fa tornare in mente. Proprio per questo voglio portare dentro di me ogni singolo giorno che ho vissuto con te e, anche se non sentirò più la tua voce così familiare sono certo che mi tornerà in mente quando ti chiamerò per l’ultima volta. Avrei voluto scrivere il mio racconto più bello di sempre parlando di te. Non so se sono riuscito nel mio intento, ma so per certo che mai ho scritto e scriverò con più amore di così.


Siediti e ascolta, nuovo romanzo di Giuliano Lenni


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Design e copertina a cura di Agnese Lenni


Siediti e Ascolta

Romanzo di Giuliano Lenni


Un viaggio nell'anima umana attraverso il mistero della memoria e la bellezza dell'arte. In questa affascinante esplorazione, l'amore, la famiglia e l'amicizia si fondono con il surrealismo della vita quotidiana, mentre ci immergiamo in un racconto intriso di storia e di perdita. Scopriamo insieme i segreti sepolti di luoghi, oggetti e opere d'arte dimenticate, testimoni silenziosi della nostra fragile esistenza. Un invito a ascoltare le voci del passato, a riscoprire la bellezza nascosta e a trasformare il presente in un ponte verso un futuro luminoso. In un mondo che corre verso l'oblio, riflettiamo su ciò che rende veramente significativa la nostra vita.

La fusione tra amore, famiglia e amicizia nella vita quotidiana

Attraverso le opere d'arte, possiamo vedere come l'amore si manifesta in gesti di affetto e cura tra genitori e figli, come la famiglia sia un nucleo di sostegno e comprensione reciproca, e come l'amicizia possa essere un baluardo nelle avversità. Questi temi universali ci aiutano a comprendere l'importanza di coltivare relazioni positive e sincere nella nostra vita quotidiana. L'arte ci invita ad abbracciare l'amore, la famiglia e l'amicizia come fondamenta solide per una vita piena di significato e felicità.

I segreti sepolti di luoghi, oggetti e opere d'arte dimenticate

Un luogo sepolto e dimenticato dal tempo, oggetti e opere d'arte abbandonate, tesori che aspettano di essere riscoperti. Nascosti tra le pieghe del tempo i manufatti raccontano storie curiose e svelano un lato oscuro della storia umana. Ogni luogo abbandonato, ogni oggetto dimenticato e ogni opera d'arte negletta nasconde indizi preziosi che possono svelare verità nascoste e arricchire la nostra comprensione del passato. Scavare nella storia è come aprire un libro antico e perdersi nelle sue pagine ingiallite. È un'avventura affascinante che ci permette di riportare alla luce il patrimonio culturale che altrimenti sarebbe stato donato all’oblio.

Riscoprire la bellezza nascosta per un futuro luminoso

In un mondo frenetico e caotico, spesso ci si dimentica di guardarsi attorno e apprezzare la bellezza che ci circonda. Ma cosa succederebbe se prendessimo il tempo di esplorare, scoprire e riscoprire? La bellezza nascosta è come un tesoro prezioso che aspetta di essere trovato. Attraverso l'arte, possiamo immergerci in mondi lontani e sconosciuti, ma anche trovare rifugio nelle piccole meraviglie della vita quotidiana. Questa ricerca della bellezza nascosta ci permette di guardare al futuro con speranza e ottimismo. È un invito a rallentare, ad aprire gli occhi e a cogliere le sfumature del mondo che ci circonda, per creare un futuro luminoso in cui la bellezza sia parte integrante della nostra vita.

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Questo folle amore

 


Questo folle amore

di Giuliano Lenni
“Ci amiamo da cinquant’anni e adesso me l’hanno rinchiuso in un ospizio, sono davvero triste. Ma non demordo, starò con lui finché potrò, anche se sono ormai stanco”. Inizia con questa frase la storia d’amore che mi tocca raccontare. Non perché non vorrei raccontarla, ma perché non amo intrufolarmi nelle storie altrui. Ma questa è una di quelle vicende che ti spezzano il cuore e l’unica soluzione è scriverne, affinché si possa condividere con altri così da esorcizzare la malinconia. Si parla di una storia d’amore tra due signori, sì avete capito bene, due uomini. Questa è una storia d’amore anomala, cioè una di quelle che durano fino alla fine, cosa sempre più rara nella nostra epoca. Colui che hanno rinchiuso in un ospizio ha una malattia che non gli consente più di vivere una vita quotidiana serena, pertanto i parenti lo hanno affidato alle cure di una casa di riposo. L’altro è un signore, con il quale ha convissuto per cinquanta lunghi anni, tra i tipici alti e bassi di ogni coppia e una certezza, un grande, folle amore. L’altro non voleva che finisse così ma non ha potuto impedire che ciò si verificasse, poiché non ha nessun diritto nei suoi confronti, non avendo legami riconosciuti legalmente. L’unica soluzione è starsi vicini comunque, a dispetto dei parenti e dei quasi ottant’anni che incombono sulle loro vite. Parlo di questa storia poiché conosco uno dei due signori. Lui è una persona per bene ed è piacevole trascorrere un po’ di tempo a parlare della sua storia e di come la città dalla quale proviene sta cambiando velocemente, tanto da non poterle più stare dietro. Si vorrebbe trasferire dove hanno portato il suo unico amore, ma non crede di potercela fare. E, allora, si rassegna a trascorrere la maggior parte del suo tempo in un appartamentino che ha preso in affitto vicino alla casa di riposo, così da non dover fare troppa strada per stargli accanto. So bene dell’esistenza di tante storie simili a questa, storie di amore e di sacrificio che vanno oltre le convenzioni sociali e le leggi, che si intrecciano silenziosamente tra le pieghe della vita di ogni giorno. Tuttavia, forse per la conoscenza diretta di uno dei protagonisti, questa è una di quelle narrazioni che ci toccano profondamente, che ci fanno riflettere sulla natura stessa dell'amore e sulla sua capacità di superare ogni ostacolo. È un racconto che ci ricorda l'importanza di riconoscere e rispettare ogni forma di affetto, di non lasciarci intimidire dalle norme e dalle restrizioni imposte dalla società. Ci insegna che è fondamentale avere il coraggio di lottare per ciò in cui crediamo, sia esso amore o idee, di difendere i nostri valori e di perseguire la felicità, nonostante le difficoltà che possiamo incontrare lungo il cammino.

Premio Michelangelo per il libro Sotto l’ala dell’aquila di Giuliano Lenni

Premio Michelangelo per il libro Sotto l’ala dell’aquila di Giuliano Lenni

Il libro, presentato sia in formato cartaceo che eBook, ha ricevuto il diploma d'onore con menzione d'encomio da parte della giuria della VI edizione del Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti.

Firenze, 19/12/2021 (informazione.it - comunicati stampa - editoria e media) 

Sotto l'ala dell'aquila è un romanzo di Giuliano Lenni pubblicato a novembre 2020. Il libro, presentato sia in formato cartaceo che eBook, ha ricevuto il diploma d'onore con menzione d'encomio da parte della giuria della VI edizione del Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti.

Un libro in cui si parla di un giovane ufficiale paracadutista che, durante il periodo di leva, si ritrova in un losco giro di traffico di armi tra l'Italia e la ex Jugoslavia, durante la guerra in Bosnia Erzegovina. Una storia in cui si intrecciano amore, amicizia, guerra, crimini e loschi traffici di armi.

La presentazione del romanzo recita “Amerigo non avrebbe mai dimenticato il periodo di servizio militare donato alla patria. Il ricordo lo avrebbe accompagnato per il resto della sua vita. Dal primo giorno di addestramento fino al giorno del congedo, passando attraverso periodi trascorsi tra gioie e amore, tra compagni sinceri e giorni spensierati ma anche tra cattive compagnie, crimini e straordinarie bugie. E un segreto da tener dentro fino alla morte.” Il racconto ha una ritmica veloce e accattivante che porta il lettore ad una lettura immediata del racconto.

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Addio all’Autogrill Pavesi di Montepulciano


L'Autogrill Pavesi di Montepulciano negli anni '70

Addio all’Autogrill Pavesi di Montepulciano

di Giuliano Lenni

La ragazza, dietro al banco, mescolava birra chiara e Seven-up e il sorriso da fossette e denti era da pubblicità; come i visi alle pareti di quel piccolo autogrill, mentre i sogni miei segreti li rombavano via i T.I.R. Ogni volta questa canzone mi riconduce all’Autogrill Pavesi di Montepulciano, ricordandomi una ragazza che lì lavorava negli anni ottanta e che, dalla descrizione, la protagonista del famoso testo di Francesco Guccini potrebbe essere davvero lei. L’Autostrada del Sole, appellativo che già di per sé evoca meraviglia, venne iniziata nel 1956, nel pieno della rinascita italiana dopo le note vicende storiche. Passo dopo passo furono aperte le varie tratte autostradali finché, nel ’64, l’intero percorso entrò nella piena operatività. L’autostrada fu un’opera di grandi proporzioni che, di fatto, segnò l’inizio concreto del progresso di una nazione che si stava risvegliando attraverso il boom economico che, di lì a pochi anni, avrebbe posto la nostra penisola al centro della società internazionale. Un’opera d’avanguardia, figlia di un’Italia operativa e desiderosa di riscatto, in cui l'abilità e la maestria italica si espressero al meglio. Nell’immediato dopoguerra si era sviluppata la necessità di collegare, sia idealmente che materialmente, il popolo italiano e la costruzione di una via lunga 800 chilometri lungo lo stivale, rappresentava un’occasione da non perdere al fine di progredire sia dal lato sociale che da quello economico. La costruzione dell’Autostrada del Sole fu un evento così importante da smuovere grandi interessi economici e coscienze e divenne un punto fermo nella storia d’Italia. Il tratto che attraversa la Valdichiana venne inaugurato nell’estate del 1964 e, tre anni dopo, Mario Pavesi inaugurò “l’Autogrill dei sogni” nato dal geniale architetto Angelo Bianchetti, creando un’attrazione per tutti gli abitanti dell’intera area, tanto da divenire, nel tempo, un punto di riferimento ideale. Famiglie intere si radunavano per veder sorgere quel miracolo di ingegneria e architettura e, chi poteva, scattava qualche foto a futura memoria, per omaggiare la costruzione “più ardita del mondo”. La domenica i genitori portavano i propri figli a comprare oggetti mai visti fino ad allora, rischiando di sbattere contro i lucidi e trasparenti vetri divisori. Con il passare degli anni, pur cambiando nome, la popolazione circostante è rimasta legata alla Pavesi, un luogo ricordato nella vita di molti. Dal 18 ottobre 2021 la Pavesi non c’è più. Quel piccolo sogno americano lascerà spazio a due più funzionali, dicono, strutture moderne. Intanto molte persone, che si sono radunate nei paraggi per seguire le opere di demolizione a significare quasi una veglia ad un compagno di vita, hanno dato un ultimo saluto a quello che è stato un luogo del cuore. Qualcuno dice che sia spuntata anche una lacrima.

 


Sotto l'ala dell'aquila di Giuliano Lenni | Romanzo

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Design e copertina a cura di Agnese Lenni

Sotto l'ala dell'aquila

Romanzo di Giuliano Lenni

Colui al quale confidate il vostro segreto, diventa padrone della vostra libertà.
                                                                          FRANÇOIS DE LA ROCHEFOUCAULD

Amerigo non avrebbe mai dimenticato il periodo di servizio militare donato alla patria. Il ricordo lo avrebbe accompagnato per il resto della sua vita. Dal primo giorno di addestramento fino al giorno del congedo, passando attraverso periodi trascorsi tra gioie e amore, tra compagni sinceri e giorni spensierati ma anche tra cattive compagnie, crimini e straordinarie bugie. E un segreto da tener dentro fino alla morte.

Sotto l'ala dell'aquila è il nuovo romanzo di Giuliano Lenni, uscito sia in formato cartaceo che eBook.

Un libro in cui si parla di un giovane ufficiale paracadutista che, durante il periodo di leva, si ritrova in un losco giro di traffico di armi tra l'Italia e la ex Jugoslavia, durante la guerra in Bosnia Erzegovina. Una storia in cui si intrecciano amore, amicizia, guerra, crimini e loschi traffici di armi. Il romanzo ha una ritmica veloce e accattivante che porta il lettore ad una lettura immediata del racconto.


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Il buon pastore

Gesù, il buon pastore. Mausoleo di Galla Placidia-Ravenna


Il buon pastore

di Giuliano Lenni
Giuseppe era tornato da poco in Italia dopo aver trascorso quasi cinquant’anni della propria vita al servizio dei più bisognosi, nella magnifiche e tormentate terre d’Africa. Aveva avuto la passione di aiutare il prossimo fin dall’infanzia quando, meravigliando parenti e amici, si dava un gran daffare per dare una mano nelle faccende domestiche alla madre e nei lavori di campagna al padre. Era nato in una bellissima giornata di aprile del 1945, proprio al termine della seconda guerra mondiale, da una famiglia che possedeva una cascina alle pendici della grande montagna. Si era dimostrato da subito un bambino assennato, sensibile ed educato e, a scuola, studiava con piacere e profitto, seppur al lume di candela, e la maestra lo adorava. Era davvero un bambino speciale. Terminate le elementari avrebbe dovuto intraprendere il lavoro del padre, un uomo atto ai lavori di campagna che gli permettevano di mantenere agiatamente la propria famiglia. Ma lui, Giuseppe, aveva un’ambizione più grande, sembrava che volesse alleviare le sofferenze del mondo. Si confidò con il parroco del piccolo paese arroccato a mezzacosta che, dapprima con stupore e poi con meraviglia, lo introdusse nel mondo del seminario, certo che il giovane sarebbe divenuto un buon pastore di anime. La famiglia non osteggiò la volontà del ragazzo, da sempre ben educato ma fortemente deciso e irremovibile sulle proprie decisioni. Passarono dieci lunghi anni di studio e, alla fine, don Giuseppe aveva coronato il suo sogno. Partì come missionario in Africa nel 1970, comprendendo che il suo servizio sacerdotale avrebbe avuto maggior impatto in quelle povere terre che in Italia dove già si respirava l’aria di opulenza, conseguenza del boom economico. Tra mille peripezie e combattendo ogni giorno a fianco di quelle povere e deboli persone, si era abituato a guardare dritta in faccia la morte, che certe volte gli sembrava un dono di Dio, visto che alleviava dolore e sofferenza, trasformando quei volti dolenti in facce distese e quasi sorridenti. Ormai alla soglia della vecchiaia il pastore decise che era arrivato il momento di tornare al suo paese di origine anche se, ormai, nessun familiare era più in vita. Voleva trascorrere proprio lì, dove tutto era cominciato, gli ultimi anni della propria vita. Il nuovo anno, il 2020, era iniziato sotto i migliori auspici e don Giuseppe trascorreva le sue giornate in solitudine, leggendo libri e raccogliendo pensieri inerenti la sua vita trascorsa ad aiutare gli altri, senza televisore o computer, strumenti che non amava e ai quali non era abituato. Un giorno di marzo scese al paese per fare una sosta al solito bar, per sorseggiare un buon caffè d’orzo e fare due chiacchiere con il proprietario. “Ha sentito don Giuseppe che disastro questo Corona virus?”, disse il barista. Il prete sobbalzò, non sapeva nulla, cadde dalle nuvole. Allora il barista gli porse il giornale dove compariva un articolo di un giornalista locale: “Una bellissima ammalata tricolore sta combattendo, oggi come ieri, contro le avversità di un evento che ancora non è stato ben compreso, che diverrà epocale grazie alla storia che ce lo racconterà. Il 2020, un normale anno bisestile, è cominciato nel modo che nessuno si sarebbe aspettato. Un terribile virus, denominato Covid-19 resta, per molti aspetti, una malattia misteriosa e il dovere di ogni cittadino è quello di rispettare le precauzioni e le regole basilari di pulizia personale per rallentare la diffusione del contagio. La coscienza e l’educazione ci impone di non farsi prendere dalla paura e di tenere lo sguardo dritto verso quello che accadrà, senza patemi. Le scuole di ogni ordine e grado sono state chiuse al fine di evitare il contagio di massa per evitare il collasso del nostro sistema sanitario nazionale. Le restrizioni, necessariamente imposte dal governo, tendono a limitare la libertà di ognuno, anche se non dobbiamo permettere alla paura di cambiare le nostre abitudini, cercando un difficile equilibrio tra la necessità di tutelare la salute ed evitare il rischio di una pandemia e condurre una vita il più possibile normale. Il rallentamento delle attività ha fatto rilevare danni economici già notevoli. I primi settori andati in crisi sono quelli legati al settore turistico, dei trasporti, della ristorazione e di tutte le attività collaterali legate a tale settori, dal commercio all'organizzazione di eventi. Le associazioni di categoria, i sindacati dei lavoratori e gli imprenditori chiedono a gran voce interventi a sostegno delle attività economiche colpite da questa crisi inaspettata che si aggiunge ad una già difficoltosa congettura economica negativa internazionale. Nei periodi di grande emergenza, come quello attuale, la coesione tra tessuto sociale e istituzioni si deve rafforzare, al fine di dare spinte economiche e sociali importanti prima di difficile raggiungimento e oggi velocemente adottabili. Nondimeno, da questa esperienza, dobbiamo trarre insegnamento e regalarci grandi opportunità. Ad esempio lo smart work può far abituare i lavoratori e le aziende a mirare ad un compromesso lavoro e famiglia. La scuola, obbligata a sperimentare la didattica online, può integrare l’attività formativa in aula con strumenti informatici facilmente utilizzabili attraverso la rete, coniugando scuola classica con studio virtuale. La vita ci regala giornate fantastiche e periodi di incertezza e dobbiamo essere noi stessi, con la nostra esperienza e le nostre interconnessioni, a superare le difficoltà per tenerci a galla e trarre ottimismo quando tutto sembra perduto. Ma, appena la bufera passa, il sole torna a splendere e con lui la nostra voglia di vivere e andare avanti facendo del nostro meglio. Teniamo la barra dritta verso il giorno dopo, che prima o poi arriverà, nel quale torneremo alla nostra libertà recuperata e avremo nuova forza per affrontare il futuro”. Letto d’un fiato l’articolo, il buon prede quasi cadde sulla sedia del piccolo bar. D’improvviso gli tornarono in mente le pestilenze che aveva dovuto affrontare nella sua lunga carriera, da missionario, ed un brivido gli percorse la schiena partendo dalla testa. Tutto si sarebbe aspettato, ma non il fatto di dover rivivere le angosce dei tormentati giorni africani. Intanto il bar si era affollato di un piccolo gruppo di amici che parlottavano fra se degli eventi che stavano sconvolgendo la loro zona e neppure si accorsero del vecchio prete che, pensieroso, finiva di sorseggiare il suo caffè d’orzo. Tornò pian piano verso la sua cascina e trascorse il resto della giornata ripercorrendo la sua vita con gli occhi socchiusi e lucidi di pianto. Tre giorni dopo, appena consumata la sua solita frugale colazione, don Giuseppe si sentì le gambe pesanti e un leggero mal di gola lo tormentava. Misurò la temperatura, trentasette gradi e sette. Il fiato si fece corto e subito chiamò il proprio medico condotto che, per fortuna, era vicino al luogo in cui viveva il vecchio parroco e giunse appena in tempo per chiamare l’ambulanza. Don Giuseppe si ritrovò, d’improvviso, in una grande camerata d’ospedale disteso supino nel letto e con i sanitari, tutti ben protetti da camice, mascherina e guanti che eseguivano su di lui le operazioni di routine per fermare quella maledetta infezione. Il prete aveva ripreso a respirare bene e avrebbe voluto elogiare quei giovani medici e infermieri che, a rischio della propria vita, lo stavano aiutando a recuperare la salute ma, non potendo parlare, cercava i loro occhi che comparivano di tanto in tanto dagli occhiali protettivi così che la sua sensibilità lo fece sprofondare in una stato d’improvvisa depressione. Percepire tutte quelle persone di fianco a lui, sofferenti e disperate, gli toglieva la voglia di vivere, capì che era esausto. La situazione, dentro di lui, precipitò quando sentì il medico del reparto che, rivolgersi a due suoi collaboratori con un gesto di resa, affermò che in corsia non avevano più respiratori e che un giovane stava soffrendo disumanamente in attesa della morte. Don Giuseppe sbarrò gli occhi e poi li socchiuse, la sua mente si affollò di visioni lontane, persone disperate che erano morte di fronte a lui, quasi sorridendo nella consapevolezza del termine del dolore fisico e della tanto aspirata pace. Con un gesto chiamò il medico e con un filo di voce gli sussurrò qualcosa. Il respiratore passò da don Giuseppe a Davide, un giovane operaio di 27 anni con moglie e figlioletta di 3 anni che lo aspettavano a casa. Il respiro di don Giuseppe si fece sempre più flebile mentre qualcuno lo osservava da lontano, piangendo. Lui incrociò quello sguardo, gli ricordava se stesso, si lasciò andare abbozzando un ultimo sorriso.
Concorso letterario Il tempo sospeso Decameron 2020-Temperino rosso

La fontana di Poggiofanti a Montepulciano


di Giuliano Lenni

La costruzione dei Giardini di Poggiofanti ebbe luogo dal 1866 al 1875 per assurgere, fin da subito, a luogo di passeggio prediletto da poliziani e viaggiatori, vista la vicinanza immediata all’esterno delle mura delimitate da Porta al Prato, nella parte nord della città di Montepulciano. I lavori procedettero con la lentezza tipica di quei tempi, per il fatto che gli operai avevano a disposizione pochi mezzi di lavoro per trasferire l’enorme quantità di terra che veniva tolta e messa lungo quelle che poi sarebbero divenute le scarpate che conosciamo oggi e che, man mano, sorgevano nei dintorni. Con il passare degli anni i giardini vennero creati, con le aiuole, i viali e poi la cancellata donata dai conti Bastogi. Il caso volle che, verso la fine dei lavori, piovve ininterrottamente per tre giorni e tre notti. Quando gli ingegneri, passata l’enorme tempesta, si recarono a fare un sopralluogo degli eventuali danni provocati dalla pioggia, furono contenti di non trovare particolari criticità ma si trovarono di fronte ad una vasca rotonda e profonda circa un metro, in cui si era raccolta parte dell’acqua piovuta. Ma la più grande meraviglia venne suscitata dal fatto che, tra le torbide acque, nuotassero un numero considerevole di pesciolini rossi. Il fatto ebbe un tale clamore che molti cittadini, gridando al miracolo, chiesero la creazione di una fontana. Fu così che la vasca venne delimitata dalle pietre e dalla balaustra in ferro giunta fino a noi. In più venne costruita una tubazione per l’acqua corrente e uno sfioro per togliere le impurità, così da renderla chiara e limpida per la felicità dei pesci rossi che la abitavano. L’acqua che sfiorava fu convogliata in una tubazione che conduceva all’abbeveratoio, una vasca posta nella vecchia piazza del mercato, nella quale gli animali si potevano dissetare durante il loro passaggio, per vari motivi, a Montepulciano, unendo così l’utile al dilettevole. Da allora dalla fontana non ha mai smesso di sgorgare acqua limpida, anche se i pesciolini rossi non ci sono quasi più e l’abbeveratoio è stato sostituito dall’uscita di un anonimo parcheggio.

Il giorno dopo



di Giuliano Lenni
Una bellissima ammalata tricolore sta combattendo contro le avversità di un virus che ancora non è stato ben compreso. Il Covid-19 resta, per molti aspetti, una malattia misteriosa e il dovere di ogni cittadino è quello di rispettare le precauzioni e le regole basilari di pulizia personale per rallentare la diffusione del contagio. La coscienza e l’educazione ci impone di non farsi prendere dalla paura e di tenere lo sguardo dritto verso quello che accadrà, senza patemi. Le scuole di ogni ordine e grado sono state chiuse al fine di evitare il contagio di massa per evitare il collasso del nostro sistema sanitario nazionale. Le restrizioni, necessariamente imposte dal governo, tendono a limitare la libertà di ognuno, anche se non dobbiamo permettere alla paura di cambiare le nostre abitudini, cercando un difficile equilibrio tra la necessità di tutelare la salute ed evitare il rischio di una pandemia e condurre una vita il più possibile normale. Il rallentamento delle attività ha fatto rilevare danni economici già notevoli. I primi settori andati in crisi sono quelli legati al settore turistico, dei trasporti, della ristorazione e di tutte le attività collaterali legate a tale settori, dal commercio all’organizzazione di eventi. Le associazioni di categoria, i sindacati dei lavoratori e gli imprenditori chiedono a gran voce interventi a sostegno delle attività economiche colpite da questa crisi inaspettata che si aggiunge ad una già difficoltosa congettura economica negativa internazionale. Nei periodi di grande emergenza, come quello attuale, la coesione tra tessuto sociale e istituzioni si deve rafforzare, al fine di dare spinte economiche e sociali importanti prima di difficile raggiungimento e oggi velocemente adottabili. Nondimeno, da questa esperienza, dobbiamo trarre insegnamento e regalarci grandi opportunità. Ad esempio lo smart work può far abituare i lavoratori e le aziende a mirare ad un compromesso lavoro e famiglia. La scuola, obbligata a sperimentare la didattica online, può integrare l’attività formativa in aula con strumenti informatici facilmente utilizzabili attraverso la rete, coniugando scuola classica con studio virtuale. La vita ci regala giornate fantastiche e periodi di incertezza e dobbiamo essere noi stessi, con la nostra esperienza e le nostre interconnessioni, a superare le difficoltà per tenerci a galla e trarre ottimismo quando tutto sembra perduto. Ma, appena la bufera passa, il sole torna a splendere e con lui la nostra voglia di vivere e andare avanti facendo del nostro meglio. Teniamo la barra dritta verso il giorno dopo, che prima o poi arriverà, nel quale torneremo alla nostra libertà recuperata e avremo nuova forza per affrontare il futuro.

L'ombra del lupo


L’ombra del lupo


di Giuliano Lenni

Il cacciatore fu trovato cadavere con ancora il fucile stretto tra le mani. Nel volto una smorfia di dolore e una profonda ferita sul collo spezzato. L’impronta dei denti aguzzi non dava adito ad errate interpretazioni. Era stato il violento morso di un lupo a causarne la morte. Ma come era successo visto che il corpo si trovava all’interno di un capanno da caccia, con la porta chiusa dall’interno? Qualche tempo prima, in una fessura rocciosa del fitto bosco, un lupo femmina e il suo compagno, avevano visto nascere i loro cinque lupacchiotti, due maschi e tre femmine. Dopo la primavera i cinque fratellini erano divenuti già robusti e in grado di gestirsi da soli nella fitta boscaglia. Ad autunno avrebbero già cominciato a cacciare con gli adulti e, pertanto, dovevano essere catturati prima per venderli agli zoo che ne facevano costante richiesta. L’estate era inoltrata ed il caldo umido invadeva la prateria che conduceva verso il fitto bosco. I cacciatori erano in tre e procedevano in fila indiana, accompagnati da un piccolo cane segugio adatto a seguire le piste delle lepri.  Erano tre esperti bracconieri che andavano in cerca di giovani lupi da rivendere a buon prezzo ai proprietari di zoo che gliele avevano richiesti. Si soffermarono e si voltarono indietro per vedere il percorso che avevano fatto fino ad allora, approfittarono per bere un sorso di acqua dalle borracce. Poi si inoltrarono nella fitta boscaglia e cominciarono a fare attenzione ai vari elementi che li avrebbero condotti nei pressi del luogo in cui i lupi gravitavano. Avevano il fucile ma non era loro intenzione usarlo, lo portavano solo per necessità in caso di difesa. Quello che a loro interessava era la cattura dei lupacchiotti che avevano la giusta età per essere venduti. Passarono la mattina a osservare il bosco, facendo attenzione ai dettagli che potevano svelare la presenza dei lupi. Il segugio, abituato a seguire l’odore delle lepri, non era di molto aiuto, anche se a volte si fermava e fissava un punto, come se avesse sentito un rumore che aveva attratto la sua attenzione. I tre, verso mezzogiorno, si fermarono in una piccola radura, per consumare velocemente il pasto che si erano portati da casa. Pane e prosciutto, formaggio e, per finire, un bel caffè ancora caldo nel thermos. Anche il piccolo segugio ebbe la sua razione di pranzo, oltre a qualche bocconcino che i cacciatori gli offrivano di tanto in tanto. Dopo la breve pausa ripartirono alla ricerca delle tracce. Il caldo soffocante costringeva i tre uomini a frequenti brevi soste, per respirare e bere un sorso d’acqua, mentre il loro segugio sembrava non stancarsi mai e, loro, lo guardavano ammirati e divertiti. Verso l’imbrunire, non avendo ancora trovato tracce dei lupi, gli uomini decisero di organizzarsi per trascorrere la notte nel bosco, avrebbero avuto un po’ di refrigerio almeno. Piazzarono i tre sacchi a pelo e la coperta per il loro fedele amico sotto ad una grande sporgenza della roccia, si tolsero gli stivali e i pantaloni e si sdraiarono per riposarsi da quella faticosa giornata. Non potendo accendere il fuoco o cucinare alcunché, per non farsi scoprire dai furbi lupi, mangiarono pane e salumi che avevano nel tascapane, concedendosi una birra ciascuno. Il segugio, anche lui sazio, se ne stava accucciato sulla sua coperta, mentre gli uomini parlavano a bassa voce, stiracchiandosi sorridendo. La notte trascorse nel dormiveglia, visto che, di tanto in tanto, il cane abbaiava all’improvviso, svegliando di soprassalto i tre cacciatori che già dormivano poco volentieri in quel fitto bosco ricolmo di rumori strani. Alle prime luci dell’alba i quattro erano già vestiti e pronti per il secondo giorno di ricerca. Il cane partì di corsa per una sgambata mentre i cacciatori, zaino in spalla, presero i fucili e proseguirono verso la vetta della montagna. Ne avevano di strada da fare. Arrivati verso la parte più alta della montagna si fermarono per riprendere fiato e per mangiare una po’ di cioccolata, che avrebbe garantito loro gli zuccheri per la fatica che stavano facendo. D’un tratto videro correre il loro fedele segugio verso un picco poco distante. Si allarmarono e corsero anche loro per vedere cosa avesse destato l’attenzione del cane. Arrivati in prossimità dello strapiombo notarono due grossi lupi immobili su una roccia con cinque lupacchiotti che stavano giocando. In quel mentre sopraggiunse il segugio che, avendo visto i piccoli, cercava di attrarre la loro attenzione per divertirsi con loro. Ma il lupo maschio non era d’accordo con il piccolo segugio e, con un balzo, lo raggiunse e, con un solo morso, lo uccise, trasportandolo poi nella tana. Sarebbe stato lui il pasto della famiglia dei lupi per quella giornata. I tre cacciatori rimasero impietriti da quella scena. Ma non fecero nulla, ormai il cagnolino si era sacrificato per loro, che avevano avuto così la possibilità di scovare il rifugio dei lupi. Nel pomeriggio, facendo attenzione a non fare il più piccolo rumore, i tre bracconieri piazzarono le reti nei punti strategici, in modo da catturare più lupacchiotti possibile e, poi, andarsene. A turno, i tre cacciatori, rimasero di vedetta nei pressi della tana, in modo da allarmare gli altri allorché i lupi fossero usciti dal nascondiglio dopo il riposo pomeridiano. Verso le sei del pomeriggio la famigliola uscì dalla tana. Il cacciatore più anziano sparò a mamma lupa che, dopo una breve fuga, si sdraiò a terra ferita a morte. I cinque lupacchiotti corsero via atterriti, ma caddero miseramente nelle trappole poste dai cacciatori così da rimanere tutti prigionieri. I tre cacciatori si guardarono intorno, non vedevano più il grosso maschio e questo era un buon motivo per restare preoccupati. Nonostante la paura i tre cacciatori sedarono i cinque fratellini e li deposero in apposite reti per poi andarsene il più velocemente possibile lontano da quel luogo terribile. Quando, verso notte, furono fuori dal bosco si fermarono ansimando, e si gettarono a terra esausti, felici per il grosso colpo portato a termine ma con un ombra nel cuore per aver perso il loro segugio. Prima di ripartire uno dei cacciatori, il proprietario del cane ucciso dal lupo, chiese agli altri due di trasportare i lupacchiotti verso le gabbie che li attendevano nel furgone lasciato ai margini del bosco. Lui sarebbe tornato per finire il lavoro iniziato. Voleva uccidere il grosso maschio che aveva azzannato il suo piccolo amico a quattro zampe e voleva farlo da solo. I due amici lo implorarono di non tornare da solo lassù, ma egli fu irremovibile. In men che si dica il cacciatore fu nuovamente nel luogo del misfatto e, nottetempo, costruì un piccolo capanno con i pezzi di legno trovati in loco. Chiusosi all’interno del capanno si rilassò, caricò il fucile a pallettoni e si mise in attesa di completare il suo lavoro. Di tanto in tanto il bosco emetteva strani suoni che destavano la sua attenzione, la luna piena favoriva una buona visuale del sottobosco e non avrebbe certo mancato la sagoma del lupo, appena ne avesse avuta la possibilità. Voleva a tutti i costi vendicare il suo cane. Si appisolò un attimo e si risvegliò di soprassalto, stanco ma determinato. Scorse un’ombra sopra la sua testa e rabbrividì. Era troppo tardi. 
"Il Racconto nel Cassetto"
Premio Città di Villaricca XV Edizione (SEZIONE RACCONTI)

Quelle campane


quelle campane

di Giuliano Lenni

Mi ricordo Padre Marco giovane studente del seminario. Non ho un ricordo nitido o preciso, mi sovviene come in un lontano sogno, tanto ero piccolo. La parrocchia era pervasa da giovani provenienti da luoghi diversi, in un momento di aggregazione che ha fatto crescere generazioni di uomini e donne all’ombra del grande cedro posto in mezzo al giardino del chiostro. Anch’io sono un uomo cresciuto lì, ho fatto il chierichetto e ho accompagnato Padre Loi e lo stesso Padre Marco a benedire le case dei parrocchiani prima di Pasqua. Mi rivedo ancora con gli altri bambini a scorrazzare per il chiostro e a tirare i primi calci al pallone nel campetto sterrato, mentre i ragazzi più grandi suonavano e cantavano nelle stanze adiacenti, poste lì a loro uso e consumo in maniera gratuita. A quel luogo sono sempre rimasto affezionato e riconoscente, cosciente del fatto che mi ha offerto la possibilità di crescere con buoni principi e la voglia di prodigarmi anche per il prossimo. Negli anni mi sono allontanato dalla Santa di Montepulciano, ma mai abbastanza da non ritornare lì dove ero cresciuto sereno e felice. Poi l’età adulta mi ha donato una figlia che, guarda caso, ho chiamato Agnese, in onore di quella minuta e fortissima donna che ha costruito e dato il nome al Santuario. Quel 27 aprile le campane suonarono a festa, come in mille e mille altre occasioni. Molte altre volte hanno suonato per i tristi eventi della vita, sempre e comunque ricordando alla comunità che lei era lì, eterna, pronta a consolarci e a cercare di esaudire, per quanto possibile, le nostre richieste. Nel corso del 2017 i pochi frati rimasti al Santuario si sono dati da fare per celebrare i 700 anni dalla morte di Sant’Agnese e, nel 2018, hanno celebrato i 750 anni dalla nascita della Santa. Lo hanno voluto impegnandosi fortemente e coinvolgendo in maniera discreta e silenziosa, come appartiene al loro stile, anche gran parte della cittadinanza poliziana. E poi feste e manifestazioni in onore della Santa accompagnano la vita della città del Poliziano durante tutto l’anno, segno di grande devozione dei cittadini alla loro copatrona. Nell’estate del 2018, un vero e proprio fulmine a ciel sereno, ha squarciato il cielo sopra il Santuario di Sant’Agnese, facendo intravedere la terribile faccia del dragone di fuoco che ancora una volta prova a fermare con tutta la forza del suo alito poderoso la piccola e indifesa Agnese, che oggi non ha più la forza di ostacolarlo. E allora il frutto della sua fede e della sua tenacia, nel costruire pietra su pietra, con estrema fatica e dolore la sua chiesa a futura memoria, sembra esaurirsi in una scelta di uomini poco illuminati dal suo insegnamento. Frati rimossi come pedine su uno scacchiere virtuale, convento chiuso, chiesa chiusa. Ah, sì, diranno di tanto in tanto qualche messa, contentino dovuto. Queste scelte sono frutto non solo di decisioni prese dai padroni del Santuario, come mi è stato riferito personalmente, ma sono frutto anche di questo modaiolo ateismo che sta affossando la nostra cultura e sta portando alla deriva la nostra malata civiltà. Forse non sentiremo più cantare quelle campane, forse le hanno legate per sempre in questo silenzio assordante. Non so se questa mia riflessione cadrà nel vuoto, d’altronde hanno già deciso, ma anche se sarò il solo a pensare che la chiusura del Santuario di Sant’Agnese da Montepulciano sia un errore fatale, voglio provare a difendere questa immensa donna poliziana, proprio in un periodo storico in cui l’altra metà del cielo è presa d’assalto da scellerati preconcetti e odiosi crimini. Voglio fare questo, facendo mia una citazione del Dalai Lama “se pensi di essere troppo piccolo per fare la differenza, prova a dormire con una zanzara”. Non riuscirò a non far dormire sonni tranquilli a chi ha il potere di evitare questo scempio, in compenso io dormirò su un cuscino di seta e libero da fastidi notturni. Non ho desideri da esaudire, ho solo l’urgenza di una breve preghiera: “Campane, vi prego, tornate a suonare”.

Un Bruscello dedicato a Sant'Agnese nel 700 anniversario dalla morte

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 di Giuliano Lenni
“Buonasera signore e signori, benvenuti al nostro bruscello…”. Inizia con questa ormai celebre frase il Bruscello Poliziano, che va in scena all’ombra del maestoso Duomo di Piazza Grande. Infatti, è dal lontano 1939 che la Compagnia Popolare del Bruscello propone, nelle calde sere di mezza estate, questo classico spettacolo derivante dall’antica cultura contadina, la quale ci regala ancora una volta una tradizione popolare che è, di fatto, uno spaccato di vita quotidiana dei tempi andati che, grazie all’impegno costante dei “bruscellanti”, resiste ancora oggi viva e lucida anche nella mente dei giovani, deputati a tramandare ai posteri gesta e storie raccontate in versi di Pia dei Tolomei, Margherita da Cortona, Ghino di Tacco, Giulietta e Romeo, Il Poliziano, Sant’Agnese, tanto per citarne alcuni, in un intreccio d’amori, battaglie e leggende. Il termine Bruscello deriva dalla trasformazione popolare della parola arboscello, che era ed è tuttora l’elemento decorativo e simbolico della rappresentazione. Il territorio di Montepulciano è da secoli una culla di tradizioni legate al festeggiamento di ricorrenze particolarmente sentite dal popolo e riconducibili alla vita terrena dell’uomo nella sua campagna, da cui dipendevano stagione dopo stagione e, proprio il Bruscello, è forse la rappresentazione più sentita di quel tempo che fu. Il Bruscello delle origini veniva cantato in momenti di svago, quando, gruppi di giovani, in tempo di Quaresima o durante il Carnevale, andavano di podere in podere, o agli incroci, o sui sagrati delle chiese, dove si ritrovava la gente, improvvisando scene guerresche o d’amore, che ammaliavano tutti coloro che vi assistevano e che, dopo una scenetta drammatica o divertente, donavano denari o vettovaglie con le quali gli improvvisati e divertenti attori organizzavano una grande festa finale. I vari personaggi che si intersecavano nella storia, sia maschili che femminili, erano interpretati da uomini, e i testi venivano cantati con la evocativa musica dall’organetto, accompagnato dai tamburi, violini, chitarre e flauti. I Bruscelli, che andavano in scena principalmente nei giorni festivi, vedevano i bruscellanti, arrivare in corteo al podere, nella piazza principale del paese, sul sagrato della chiesa o ad un incrocio, con in testa il “Vecchio del Bruscello”, che portava l’arboscello, seguito dai musicisti. I bruscellanti, disponendosi in semicerchio, cantavano in coro e da soli secondo l’argomento. Dopo aver fatto divertire tutti i convenuti con sberleffi e battute, o averli commossi con storie tragiche, all’ombra dell’arboscello che drizzavano al centro, la compagnia si trasferiva in un'altra sede con allegria e spensieratezza. Le storie che venivano interpretate nel Bruscello erano molto sentite dagli spettatori, che prendevano parte alla recita imparando a memoria le frasi recitate dai bizzarri attori, schierandosi a favore di un personaggio o di un altro, favorendo di solito chi aveva subito il torto o l’ingiustizia dall’arrogante e potente signore. Questo sistema di “fare il Bruscello” è durato fino alla fine degli anni ’50, quando la Valdichiana è rimasta orfana delle grandi famiglie e dei molti abitanti che affollavano i poderi, dopodiché le tradizioni popolari sono scomparse o hanno dovuto trasferirsi dentro le mura cittadine. Ciò vale solo in parte per il Bruscello poliziano, che è sopravvissuto allo spopolamento delle campagne per aver compiuto una fondamentale operazione di avanguardia, trasferendosi in Piazza Grande nel 1939 iniziando ad evolversi e quindi continuando a vivere al di là della scomparsa della tradizione; giungendo fino a noi mutato sì nella scenografia, nei costumi, per la presenza delle luci, etc., ciò fu necessario per andare incontro alle necessità di un pubblico più vasto ed esigente, diventando così spettacolo a volte epico, a volte drammatico, a volte farsesco, con episodi creati dalla fantasia popolare o realmente accaduti, attinenti alla storia o alla letteratura, ma rimanendo comunque legato alla sostanza dei temi che da sempre hanno alimentato la fantasia popolare e che rimangono il vero amalgama della continuità della tradizione popolare. Con il tempo, soprattutto per opera di don Marcello, i testi si sono arricchiti di nuove storie e avvenimenti, accompagnati dalla stessa musica costruita su motivi tradizionali, una sorta di cantilena presente in tutte le rappresentazioni popolari della Toscana e plasmabile sulle varie interpretazioni a secondo dell’inflessione della voce, modulata ad arte dal cantastorie, dallo storico e dagli attori a buon bisogno. Il sopra citato “Vecchio del Bruscello”, che era il personaggio di spessore della compagnia, portava l’arboscello e introduceva la storia dando inizio alla rappresentazione, con il tempo è stato sostituito dal “cantastorie” e dallo “storico” che sono divenuti i personaggi su cui ruota tutta la compagnia degli attori e delle comparse. Il più famoso cantastorie del Bruscello Poliziano è stato Arnaldo Crociani, conosciuto con il soprannome di “osso”, un personaggio che ha segnato in modo indelebile la storia del Bruscello, così come lo storico Alfiero Tarquini, che ha sostituito il babbo Angiolino detto “fagiolino”, presente fin dalla prima edizione. “Un ricordo particolare va ad un grande personaggio che la Compagnia del Bruscello incontrò arrivando nella piazza principale della città: Fausto Romani, meglio conosciuto come “Mence”, un baritono dallo splendido timbro vocale che per lungo tempo è stato il protagonista maschile di tutti i Bruscelli, realizzando anche le scenografie di molti allestimenti” (cit. Mario Morganti). La famiglia Romani, dopo il Mence, è rimasta legata in modo costante al Bruscello con suo nipote Franco, il “pipas”, oggi regista, scenografo e dirigente della Compagnia. Franco è stato presidente dell’Istituto Comunale di Musica e del Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano, fondatore e direttore artistico dell’Arteatro Gruppo è l’ideatore del premio poliziano alla cultura “Sganarello d’oro” ed è autore di diversi spettacoli per bambini oltre che del Bruscello del 1998, “Del Pecora”. Da segnalare Sant’Agnese la Santa di Montepulciano, messo in scena per onorare il settimo centenario della morte dell’amata Santa Poliziana. Franco Romani ha diretto l'ennesima rappresentazione popolare sotto forma di Bruscello, che ha visto alla regia Marco Mosconi, al debutto in questa veste. Sono sicuro che alla fine dello spettacolo, il cantastorie congederà il pubblico, come fa da sempre con la celebre strofa: “Buonanotte, voi giù che ascoltate, per quest’anno il Bruscello è finito. Grazie a tutti, signori, e scusate, se un po’ tardi vi mando a dormir. Ecco termina il dramma ed il canto, che avrà fatto gioir più d'un cuore; forse è troppa la gioia, poco il pianto ma è la vita ch'è fatta così!”. Così dicendo, farà calare il sipario sull’ultimo spettacolo andato in scena, dando spazio ai Bruscelli futuri, nel segno della continuità e della storia della tradizione popolare legata alla nostra terra e alla nostra civiltà.

La casa dell’infanzia


la casa dell’infanzia

di Giuliano Lenni
Arriva un certo giorno, nell’età adulta, che ti volti indietro con la mente non conoscendone bene il motivo. Ripercorri con la memoria gli eventi che ti hanno formato nel carattere e nel fisico, soffermandoti su quei fatti che ti rattristano o ti strappano un sorriso. Ogni volta che ripensi a qualcosa che ha caratterizzato la tua infanzia, o la spensieratezza della giovinezza, non può certo mancare il luogo dove hai vissuto, il luogo per antonomasia, la casa della tua infanzia. Che fosse grande, piccola, bella, brutta, in campagna, in città. Non importa. Qualunque caratteristica avesse avuto, sarà sempre il luogo del cuore e dei ricordi. Il posto che ricorderemo tutta la vita, fino alla fine. Si racconta di persone che, in punto di morte, altro non pensano che alla loro casa dell’infanzia, ai giochi che facevano da bambini, alle persone, ai sogni e alle speranze coltivate al suo interno, troppo spesso disilluse. Non abbandoneremo mai quella casa che ci ha dato gioie e dolori, che ci ha permesso di conoscere un mondo diverso da quello che abbiamo vissuto da grandi, che ci ha donato sensazioni che hanno determinato tutta la nostra vita. No, non abbandoneremo mai il ricordo di quella nostra stanza arredata fin nei minimi particolari con la nostra fantasia e le cose che più abbiamo amato. L’età della ragione ci porta lontano da quella casa e da quei sogni che speravamo di realizzare e dalle persone con le quali pensavamo di trascorrere tutta la vita insieme, senza mai doversi dire addio per sempre. Anche chi ha la fortuna di vivere nella stessa casa per tutta la vita ricorderà comunque, nel tempo, una casa diversa poiché non è il luogo fisico reale che ci tiene viva la memoria, ma il ricordo che trascorrendo torna alla nostra mente modificato in meglio. Non ti ricorderai del freddo dell’inverno o del caldo dell’estate, ti ricorderai solo quella sensazione di piacevolezza che invadeva la tua mente e il tuo corpo e, ogni volta che ti ritrovi in quel luogo il tuo cuore si allarga a dismisura e tiri un sospiro che ti riporta alla vita terrena. E sei tranquillo, poiché sai che lì potrai tornarci ogni volta che vorrai e potrai ritrovare gli affetti e le persone e quella pace che sembra essersi smarrita nei meandri di una vita quotidiana che a fatica sopporti.